È quando, strappate le radici per vivere e lavorare nell’agognata metropoli, si è convinti di aver dato una svolta alla propria vita, che la sorte improvvisamente ci mette di fronte a un nuovo, inimmaginato scenario. È un destino beffardo o provvidenziale, quello che costringe Giuseppe (detto Peppino), a tornare al Sud, in Alta Irpinia, dopo trent’anni di lavoro a Milano? Di certo è una necessità, che si profila nel tentativo di salvare o almeno assistere, il padre colpito dall’Alzheimer. Comincia così per il protagonista, un emozionante viaggio nella memoria, scandito dalle vicissitudini legate alla malattia del padre. Peppino per prendersi cura dell’anziano genitore, torna indietro nel tempo, dopo aver interrotto a Milano “una vita in prestito, consumata tra le pareti di casa a poca distanza dalla stazione, in una città dove avevo trovato lavoro ma non me stesso”. Rimessi i piedi nella propria terra, ne descrive minuziosamente l’odore, i suggestivi paesaggi, i racconti e le persone che vi sono legate, il senso di accoglienza, ma anche l’immobilità e le asperità: “Questo altopiano è un diario di sacrifici scritto con l’inchiostro di sangue e sudore dei contadini che spesso l’hanno difeso dai guasti della politica. Le più ostinate sono state, restando tali, sempre le donne che sembrano vivere piccole negli angoli della vita ma poi vengono fuori in tutta la loro grandezza”. Ritornare nella terra d’origine, è per Peppino un affastellarsi di sensazioni: dal senso di oppressione e di controllo degli sguardi e delle malelingue, a un’occasione di recupero di un pezzo di sé, di una dimensione più umana, nella quale ci si conosce, si fraternizza con facilità e ci si aiuta vicendevolmente. Ritrovare il paese spopolato, lacerato dagli abbandoni, con le crepe alle case, le nuove costruzioni in cemento che si ergono senza armonia a poca distanza dal centro storico, gli scheletri incompiuti di cemento armato e le pale eoliche, che ne hanno deturpato il panorama, è come ripercorrere un sentiero inesplorato, proprio come quello della sofferenza del padre, di cui è impossibile controllare le mutazioni: la malattia obbedisce soltanto a se stessa. L’Alzheimer, che il medico milanese ha definito un “abito del male fatto su misura”, capace di cambiare e adattarsi a ogni individuo, scombussola le loro esistenze e fa sentire Peppino rabbiosamente impotente, ad assistere un padre che vive in un mondo parallelo, smarrisce i ricordi, confonde le persone, talvolta persino il proprio figlio! Prendersi cura di lui, diventa l’occasione per fare un bilancio delle loro vite, ritornare a ciò che li ha separati e farlo riflettere su quanto poco, in fondo, conosca suo padre. È l’opportunità per cercare di sfondare il muro creato in anni di lontananza, quando, contravvenendo ai voleri del padre, forte era stato per lui l’orgoglio di rendersi autonomo senza chiedergli niente, preferendo agli ordini-desideri paterni, il lasciarsi travolgere dai rumori, dalla fretta, dall’ansia della vita milanese, nella presunzione di tenere lontani i tormenti lasciati in paese. L’accurata descrizione degli stati d’animo, dei luoghi, degli scenari, delle atmosfere, delle figure umane, è quella di un mondo in cui l’autore del romanzo, Pasquale Gallicchio, ci fa immergere e provare empatia, e se da un lato apre alla speranza, dall’altro, ci stimola inevitabili domande: è giusto lasciare la terra natia per cercare fortuna altrove? E quella terra, è più madre o matrigna? Serve più coraggio per partire o per ritornare? Di sicuro quelle di montagna più interne, al Sud come ormai in molte zone del Nord, sono spesso terre difficili, in cui si vive con “l’esilio nel cuore”. Ma la domanda che predomina su tutte e ci deve far riflettere è: perché non si creano finalmente le condizioni affinché i giovani senza doversi lacerare l’anima, possano rimanere nella propria terra, contribuire al suo sviluppo e in tal modo, al benessere dell’intera comunità? Il romanzo ha vinto il Premio letterario internazionale Viareggio Rèpaci per la sezione Narrativa.
Breve nota sull’autore Pasquale Gallicchio, giornalista professionista, è nato (27/7/1967) e vive a Bisaccia (AV). Nel 2000 ha collaborato al documentario di Gianni Amelio, “La terra è fatta così”, sul terremoto in Irpinia del 1980. Ha scritto racconti, saggi e romanzi, tra cui: “Difendiamo la Costituzione” (2006), “Passaggio democratico” (2007), “Terra” (2014), “La curva” (2016), “Niente è perduto per sempre” (2020), “La barca delle parole – Frammenti di un passeggero”, compendio di pensieri e riflessioni (2021).
Floriana Mastandrea