Il 6 gennaio 1941, il 32mo Presidente degli Stati Uniti, F. D. Roosevelt, in piena Seconda Guerra Mondiale, parlava delle 4 libertà fondamentali: di parola ed espressione; di culto; dal bisogno, ovvero dalla miseria; dalla paura, ovvero quella sicurezza che una nazione, in accordo con le altre, deve assicurare al suo popolo (aprendo la strada alla creazione dell’ONU). Una dottrina politica, per rispondere alla tirannia di chi tentava di imporre un “nuovo ordine” sganciando bombe: Hitler e Mussolini. L’obiettivo era che i 4 principi democratici si realizzassero in quel secolo e non in quelli seguenti. Se in parte dopo la fine della guerra, l’auspicata libertà e la democrazia si sono realizzate, non sono però, diritti acquisiti per sempre e tantomeno ovunque: il conflitto tra Russia e Ucraina, lo dimostra. Cosa faremmo oggi se perdessimo la democrazia, se nel mondo finisse? È la domanda che si è posto in un editoriale (21/03/22), l’ex direttore di Repubblica (Ezio Mauro). È questa la sfida del secolo. “Non vederla vuol dire arrivare in ritardo e impreparati a una contesa che rischia di cambiare i fondamenti morali della politica, azzerando tutto ciò che hanno costruito tre generazioni, nel lungo intervallo di pace che abbiamo scambiato, sbagliando, per la conquista definitiva di una civiltà di convivenza”. Per dirla con Mathias Enard, premio Goncourt 2015: “Se la Russia ha invaso l’Ucraina, è perché l’Europa non ha saputo guardare alla propria storia. Non abbiamo saputo immaginare il ritorno alla violenza”… Abbiamo perso la memoria o quantomeno, non l’abbiamo coltivata abbastanza… E mentre siamo sulla pericolosa soglia di una Terza Guerra mondiale, in cui il sistema dei valori costruiti sulla Resistenza, rischia di essere demolito, ora più che mai, il mondo necessita di cooperazione, solidarietà e pace, per affrontare i disastri umanitari e ambientali provocati sia dal cambiamento climatico, che dall’uomo. Nel mondo cresce invece l’insicurezza, dovuta oltre che alle guerre, alla pandemia con cui ormai conviviamo da due anni. I dati Censis In Italia l’ultimo rapporto del Censis (3/12/2021) evidenzia come una parte di Italiani sia diventata irrazionale, a causa delle aspettative insoddisfatte, sia per la pandemia, sia per ragioni socio-economiche profonde. Un’alta percentuale di Italiani (81%) ritiene che oggi è molto difficile per un giovane, vedersi riconosciuto nella vita l’investimento di tempo, energie e risorse, profusi nello studio. Il 35,5% è convinto che non conviene impegnarsi per laurearsi, conseguire master e specializzazioni, per poi ritrovarsi con guadagni minimi e rari attestati di riconoscimento. Per due terzi (66,2%), nel nostro Paese si viveva meglio in passato. Negli ultimi dieci anni, si è indebolita la capacità degli Italiani di formare nuova ricchezza a causa di fattori socio-economici come: crollo dei consumi, chiusura delle imprese, fallimenti, licenziamenti, povertà diffusa, che fanno temere di inciampare in vecchi ostacoli mai rimossi o, in altri improvvisi. A cominciare dal rischio di una fiammata inflazionistica. (A ottobre 2021 il rialzo dei prezzi alla produzione nell’industria, è stato consistente: +20,4% su base annua; +80,5% per l’energia, +13,3% per la chimica, +10,1% per la manifattura nel complesso, +4,5% per le costruzioni).I giovani Secondo il Censis, tra i giovani è forte la percezione che i gangli del potere decisionale, siano in mano alle fasce anziane della popolazione. Il 74,1% dei giovani di 18-34 anni, ritiene che ci siano troppi anziani a occupare posizioni di potere nell’economia, nella società e nei media (opinione condivisa dal 65,8% della popolazione).
I Neet (Not in education, employement or training), giovani che non studiano e non lavorano, costituiscono una vistosa fragilità sociale del nostro Paese. Nel 2020 erano 2,7 milioni (29,3% del totale della classe di età 20-34 anni: +5,1% rispetto al 2019). Nel Mezzogiorno sono il 42,5%, quasi il doppio dei coetanei che vivono nelle regioni del Centro (24,9%) o nel Nord (19,9%).
Il capitale umano L’Italia affronta la grande sfida della ripresa post-pandemia, con una grave debolezza: la scarsità di risorse umane. Tra il 2015 e il 2020 si è verificata una contrazione del 16,8% delle nascite. La popolazione complessiva diminuisce anno dopo anno: 906.146 persone in meno tra il 2015 e il 2020. Si prevede che la popolazione attiva (15-64 anni), oggi al 63,8%, nel 2030 scenderà al 60,9% e nel 2050 al 54,1%.
La riscoperta della solidarietà Un terzo degli Italiani ha partecipato a iniziative di solidarietà legate all’emergenza sanitaria, aderendo alle raccolte di fondi per associazioni non profit, per la Protezione civile o a favore degli ospedali. Le donne sobbarcate di lavoro in casa, hanno perso il lavoro A giugno 2021 le donne occupate sono ulteriormente diminuite: erano 9.448.000, contro i 9.516.000 del 2020 e i 9.869.000 del 2019. Durante la pandemia, 421.000 donne hanno perso o non hanno trovato lavoro. Il tasso di attività femminile (metà anno, al 54,6%), si è ridotto di circa 2 punti percentuali durante la pandemia e rimane lontano da quello degli uomini (72,9%). La pandemia ha comportato un surplus di difficoltà per le donne, trovatesi a gestire in casa il doppio carico figli-lavoro: un carico aggiuntivo di stress, fatica e impegno, nel lavoro e nella vita familiare.
L’uso di Internet Durante l’emergenza, a più di un Italiano su due, le tecnologie digitali hanno consentito di provvedere alle proprie necessità (58,6%), di mantenere le relazioni sociali (55,3%) e di continuare a lavorare o studiare (55,2%). Ma il livello di istruzione, rappresenta ancora un fattore di filtro: gli utenti di Internet in possesso di un basso titolo di studio (fino alla licenza media) sono più restii a utilizzare on line il proprio conto corrente (30,3%, contro il 60,1% di diplomati e laureati). La Carta fondamentale dei valori La Costituzione all’art. 1 recita che l’Italia è una Repubblica basata sul lavoro e sulla sovranità popolare: il primo è sempre più precario, la seconda, è stata spesso scavalcata, come quando si è deciso di nominare i parlamentari, così come di annullare il voto popolare per l’elezione dei Consigli provinciali. All’art.37 contempla la parità salariale fra uomo e donna, che non sempre viene rispettata, nonostante le leggi finora approvate, partendo dalle prime battaglie della costituente e poi deputata, Teresa Noce. La disparità di trattamento al ribasso che i cittadini del Sud subiscono nella scuola, nella sanità, nei trasporti, negli investimenti pubblici e privati, è un altro grosso gap da colmare, che il tanto decantato regionalismo differenziato, se applicato, non può che continuare ad acuire. È urgente riorganizzare la sanità, che con la pandemia ha rivelato tutte le sue criticità, come è necessario ripensare alle forme e ai modi del lavoro e creare occupazione. È vitale risanare l’ambiente, dare nuova linfa al ruolo delle donne, combattere ogni forma di precariato e sfruttamento, così come le nuove povertà, in drammatico aumento. È fondamentale combattere la dispersione scolastica e promuovere l’istruzione. In sintesi, la pandemia ha accentuato le differenze sociali tra ricchi e poveri, le differenze salariali fra uomo e donna, allontanato il Sud del Paese dal resto dell’Italia, con conseguente emigrazione dei più giovani. La guerra tra Russia e Ucraina, dal canto suo, ha causato uno spropositato aumento dei costi dell’energia, che accentua ulteriormente le differenze e, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, l’economia dell’Italia e dell’Europa rischiano il default. La mancata applicazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, ha consentito al neofascismo di prosperare: considerato come marginale o come il sogno di qualche nostalgico, ci siamo accorti che invece è vivo e vegeto, quando (9/10/21) è stata assaltata e devastata la sede della CGIL.
La guerra e la “resurrezione” La nostra Carta, all’art.11 enuncia che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Ripudiare implica repulsione, sdegno, orrore: vuol dire spingere all’indietro (azione attiva). Tra le migliori affermazioni da fare all’indomani di un conflitto, che nel mondo intero aveva generato ben 62 milioni di vittime, tra civili e militari: la guerra più devastante (intere città e popolazioni distrutte) e drammatica della storia dell’umanità, sia per le sofisticate armi con cui era stata combattuta, sia per lo sterminio delle razze ritenute inferiori. Parlare di pace, equivaleva a una resurrezione: una nuova vita, di lì in avanti, per i popoli del mondo. Anche nella Costituzione francese del 1946 si proclamò che: “La Repubblica non intraprenderà alcuna guerra a scopo di conquista e non impiegherà mai le sue forze contro la libertà di alcun popolo”. La Germania federale scrisse che: “Le azioni idonee a turbare la pacifica convivenza dei popoli, in particolare a preparare una guerra offensiva, sono incostituzionali”. I popoli speravano in una pace universale (I. Kant). Chi aggredisce, opprime, ha sempre torto, ma ad un’analisi obiettiva, bisogna menzionare i rispettivi errori principali, che hanno contribuito a questo efferato conflitto: della NATO, che ha inglobato tutti i Paesi del vecchio Patto di Varsavia (alleanza militare tra stati socialisti, durata dal 1955 al 1991); della stessa Ucraina, che non ha applicato gli accordi di Minsk del 2015, i quali prevedevano la neutralità del Paese e l’autonomia di parte del Donbass. In questo decadente scenario, si fa più forte l’esigenza di operare per la pace, per fermare la folle scia di devastazione, sangue e lacrime. Coltivare la memoria delle stragi di innocenti che hanno pagato i deliri di imperialismo politico ed economico, del tiranno di turno, è fondamentale per tenere alta la guardia. Il compito dell’ANPI oggi diviene più che mai prioritario per custodire la memoria, promulgare la conoscenza di ciò che è stato, ricordare la storia, l’origine e l’azione del nazifascismo, la Resistenza, che pagando uno scotto altissimo, ci ha consentito di essere liberi e creare il nostro sistema democratico di valori. Vivere vuol dire essere partigiani, non voltarsi mai dall’altra parte, sentire sulla propria pelle le difficoltà degli altri esseri umani, nostri fratelli. Vuol dire provare empatia, promuovere accoglienza e integrazione, senza mai dimenticare (come sosteneva Albert Schweitzer) che dall’interazione tra persone e culture, nascono grandi opportunità. L’ANPI deve coinvolgere i giovani con ogni mezzo, dai media alla formazione, all’ausilio delle scuole, affinché si facciano promotori dei valori che custodisce, dai diritti umani al lavoro, dalla lotta contro la criminalità, alla verità e giustizia per le vittime delle stragi nazifasciste del ‘43-’45, dal rinnovamento della politica, con la promozione della partecipazione dei cittadini, alla parità tra i generi, alla libera informazione, al contrasto della corruzione, ad un fisco equo. Princìpi da difendere e diffondere. La pace, come i diritti, per quanto inseriti nella Costituzione, non sono mai acquisiti per sempre (la storia ce lo insegna), ma bisogna fare ogni sforzo, mettere in atto ogni capacità diplomatica, perché la ragione e l’umanità vincano sull’odio. Bisogna costruire la speranza, rimettere al centro quei valori etici e morali che preservino l’umanità, bisogna insomma, attuare una Rivoluzione gentile, basata sui valori e una ritrovata empatia tra gli esseri umani. Papa Francesco lo ha ripetuto fino a implorarlo: la guerra è una barbarie orrenda e folle, bisogna fermare le armi con la diplomazia, prima che le conseguenze diventino irreversibili!
Floriana Mastandrea
Delegata ANPI Avellino